Contro le calunnie ormai quotidiane e a reti unificate nei confronti di Pasquale Tridico, vorrei raccontarvi una storia.
La sua storia personale. Capirete molte cose, a partire dalle ragioni per cui molti vogliono fare fuori una persona libera e fuori dagli schemi.
Tieni duro Pasquale!
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“Mio padre? Ha iniziato a parlare dopo di me. Sono figlio di un padre analfabeta che come cantava De Gregori faceva il guardiano di mucche, non sapeva né leggere e né scrivere e che per buona parte della sua vita è stato sordomuto. Nel paese della Calabria dove siamo nati veniva considerato un ritardato.
Sono nato nel 1975. Ma nel 1979 lo stato sociale entra per la prima volta nelle nostre vite. La mia sorella maggiore primogenita, vent’anni più grande di me, con grandi sacrifici, arriva a Salerno per fare l’università, mentre studia, scopre che la sindrome di mio padre è curabile, e che la mutua poteva passargli, addirittura gratis, un apparecchio acustico.
Recupera l’udito e persino la parola, anche se, per tutta la vita, parlerà come un bambino. Dopo qualche tempo un altro mio fratello, il secondo, va a studiare a Torino. Dove scopre che c’è possibilità del ‘collocamento obbligatorio’ per le persone come lui.”
Questo fece si che papà Tridico ottenne un posto come bidello a Torino. Tutta la famiglia si trasferì nel capoluogo piemontese, ma questa migrazione non fu priva di traumi.
“In Calabria ero il primo della classe, a Ferriera, in periferia, divento l’ultimo. Per l’accento, forse, per le inflessioni dialettali, non so: diventavo a tutti gli effetti ‘un terrone’. Per integrarsi bisogna avere anche fortuna.
Dopo due anni io e mia madre torniamo in Calabria. Due case, due città. Grandi spese. A partire dai miei 15 anni, per quattro mesi all’anno, faccio vacanze-lavoro in Germania. Da solo, senza adulti, con un altro mio cuginetto, della mia età”.
Tridico parte per Monaco con il cugino Ottavio. Il primo viaggio all’estero della sua vita. Non poteva espatriare da solo, perché aveva meno di 16 anni. Li accompagna un altro cugino più grande. Che però si accorge di aver dimenticato il documento: e torna indietro. Il viaggio diventa una Odissea:
“A Bressanone il controllore prende le nostre carte di identità e ci dice: ‘Dovete scendere!’”. I due lo fanno. Ma “Appena vediamo la divisa che passa di vagone, spiando dai finestrini, traversiamo la ferrovia strisciando sotto il treno tra un vagone e l’altro”. Non è finita: “Giriamo intorno alla carrozza, risalendo in quella che aveva già controllato. Videro tutti, ma per fortuna nessuno ci denunciò.
Appena scesi incontriamo un paesano. Baci, abbracci, e lui ci dice: «C’è un vostro cugino che fa le pizze qui, nel chiosco della Banhof!». Poi scoprii che era più facile trovare un calabrese che un tedesco.
Finisco a fare il lavapiatti. Primo anno lavapiatti. Secondo anno lavapadelle, posto privilegiato e ambito perché ce ne sono meno. Terzo anno, una pacchia: le insalatiere, non ti sporchi.
In sala c’erano quelli del Nord, che parlavano le lingue. Ma il quarto anno riesco con un salto sociale: divento cameriere. Dopo cinque anni vado all’università e trovo un lavoro da animatore, e poi coordinatore nelle colonie estive con l’associazione Aquilone.
Se non avessi avuto questa vita di lavoro alle spalle non mi sarei messo a studiare il Reddito, non avrei desiderato realizzarlo con tanta forza. Tuttavia, se quando pubblicai il primo saggio scientifico, nel 2014, qualcuno mi avesse detto che cinque anni più tardi sarei stato a capo del soggetto che erogava il Reddito avrei chiamato l’ambulanza per farlo ricoverare”.