Ieri, 1° maggio, è stata la Festa dei lavoratori e come tutti gli anni si è celebrato e si festeggiato il lavoro. Ma la domanda che mi faccio ogni volta è: chi ha festeggiato?
Il 50% dei giovani che si ritrovano nella condizione di disoccupati, inattivi o sottoccupati?
I lavoratori in età matura che una volta perso il lavoro oltre a non ritrovarlo non hanno accesso a un dignitoso sostegno al reddito?
Le famiglie che piangono i propri cari morti sul posto di lavoro?
Le migliaia di persone che ogni anno si ammalano a causa di malattie professionali?
I “lavoratori anziani” che a causa della Legge Fornero attendono la tanto agognata pensione che non arriva mai?
Chi si ammazza di lavoro lontano dai propri cari e chi è rinchiuso in un centro commerciale a Pasqua e a Natale?
Chi lavora di notte ribaltando il proprio orologio biologico per rispondere ai dogmi della produttività?
Chi rischia la vita tutti i giorni sul cantiere al caldo cocente d’estate e al freddo glaciale d’inverno?
Gli sfruttati, i perseguitati e i mobbizzati?
Infine chi si ammazza a causa del lavoro che ti spreme fino a farti impazzire, oppure chi si toglie la vita perché il lavoro lo perde e non trova altre soluzioni per tirare a campare?
Se “il lavoro nobilita l’uomo” ed è l’unica forma di realizzazione umana, vi chiedo di fare un esperimento: domandatevi se vi sentite realmente soddisfatti, oppure se le vostre ambizioni erano altre, poi fate la stessa domanda ai vostri conoscenti. Chiedetegli perché ogni giorno si tirano su le maniche, se lo fanno per amor di patria e per l’Articolo 1 della Costituzione o perché è l’unico modo per portare a casa un reddito.
Questo per dire che il lavoro è indubbiamente una parte importante della nostra vita, ma non deve assolutamente prevaricare e annullare la nostra esistenza. E’ quindi necessario puntare a un’idea di lavoro che abbia un’utilità sociale, che sia dignitoso, rispettoso dei tempi di vita (conciliazione vita – lavoro), sicuro e che venga finalmente considerato un diritto e non una concessione o addirittura un privilegio.
Il professor Domenico De Masi, da me invitato nella scorsa Legislatura per un’audizione in commissione Lavoro, ha portato una riflessione che non scorderò mai e che condivido totalmente.
“Un ragazzo di 20 anni, un mio studente, ha davanti a sè 60 anni di vita che sono 530 mila ore. Che farà questo mio studente nelle prossime 530 mila sue ore? Immaginiamo che trovi lavoro a 25 anni e che lavori fino all’età di 65 anni – cosa impossibile ma immaginiamolo – e che lavori 40 ore alla settimana. Sono in tutto 80 mila ore di lavoro. 530 mila ore di vita, meno 80 mila ore di lavoro fanno 450 mila ore di non lavoro. Immaginiamo che questo giovane dedichi 10 ore al giorno per dormire, mangiare e curare il corpo; ne restano ancora 230 mila di totale tempo libero. E io dovrei preparare questo giovane alle sole 80 mila ore di lavoro trascurando tutto il resto quando il lavoro è un settimo della vita? Perfino il primo articolo della Costituzione va modificato, perché dire che la repubblica italiana è basata sul lavoro significa dire che l’Italia è una Repubblica democratica basata su un settimo della vita“.
L’intervento di Domenico De Masi sul rapporto tra vita e lavoro.