Gabriele Zanni – sindaco di Palazzolo sull’Oglio, il mio paese – appoggia la Riforma del Governo Renzi.
Sulla [highlight]sentenza 1/2014[/highlight] con cui la Consulta ha dichiarato “incostituzionale” la legge elettorale [highlight]lo inviterei a leggere questo stralcio da un recente saggio di Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale[/highlight].
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[…] Le conseguenze, secondo i commentatori. ― Si è qui al cospetto d’un punto acutissimo di emergenza delle difficoltà che caratterizzano il presente momento di costituzione malferma. Pochi hanno preliminarmente obiettato che ― indipendentemente dalla fondatezza delle «evidenze» proclamate dalla Corte ― gli effetti delle dichiarazioni d’incostituzionalità non dipendono dalla sua volontà, ma dall’invalidità come è definita dalla Costituzione (art. 136) e dalla legge (art. 30 della l. n. 87). In altri termini, alla Corte spetta dichiarare l’incostituzionalità e dalla dichiarazione discendono effetti necessari, che sfuggono alle sue determinazioni: a parte il divieto di «riproduzione», la perdita di efficacia, cioè l’inapplicabilità della legge, con il limite dei cosiddetti rapporti esauriti. Tra i pochi che hanno affrontato in questi termini la questione, ci sono Sorrentino (che, a questo proposito, autoironicamente si definisce giurista primitivo, cioè ― direi ― legato, tutt’altro che ironicamente, agli arché, ai fondamenti) e Capotosti (il quale aggiunge che «sarebbe interessante» approfondire la questione dei poteri della Corte di modulare gli effetti delle sue decisioni). Anche la Corte di Cassazione-giudice a quo, in un passo contenuto nella sentenza 8878/14, ricorda che gli effetti della dichiarazione d’incostituzionalità devono essere tratti dal giudice ordinario e non dalla Corte (affermazione fatta con riguardo alla pretesa autonomia dei giudizi pendenti davanti all’uno e all’altro, che vale tuttavia come spia dell’estraneità della Corte costituzionale da ciò che deriva dalle sue pronunce). D’altra parte, il fatto che di tutto questo si tratti solo nella motivazione e non ci sia traccia nel dispositivo (osservazione di Romboli), degrada l’opinione della Corte al rango d’un obiter dictum, dotato dell’autorità persuasiva che le si può riconoscere, ma non di forza autoritativa.
Circa i singoli aspetti del dictum costituzionale, i commenti sono concordi nel ritenere che la sentenza non spazza via, ora per allora, le Camere elette con la legge dichiarata incostituzionale. Rescigno, come anche Onida, ritiene senz’altro che ciò corrisponda al «minimo di buon senso». In generale, pare convincente l’applicazione al caso in questione del concetto di «rapporto esaurito» o di «fatto concluso» (Staiano). Taluno si appella, sia pure problematicamente (Cerri e Sorrentino) alla figura del funzionario di fatto o al più radicale principio della continuità degli organi rappresentativi di cui l’istituto costituzionale della prorogatio sarebbe espressione. Altri avrebbero potuto evocare, con qualche analoga forzatura, il principio tempus regit actum. Onida giunge alla stessa conclusione salvatrice, ma per ragioni connesse al momento dell’insorgenza della questione di costituzionalità: a suo parere, la Corte ha potuto escludere effetti sulla legittimità del Parlamento eletto nel 2013 e sugli atti da esso compiuti perché il giudizio a quo, promosso con un’azione di mero accertamento, non è sorto «in occasione o in connessione diretta col procedimento elettorale» (dal che, parrebbe doversi dedurre che, in caso contrario ― cioè se fosse stato contestato un qualche atto di tale procedimento ― la pronuncia avrebbe avuto necessariamente conseguenze invalidanti per il tempo pregresso).
Tutto ciò riguarda i fatti compiuti, cioè il tempo passato. Per gli atti da compiere, cioè il tempo successivo alla dichiarazione d’incostituzionalità, secondo la Corte la loro salvezza dipenderebbe, come s’è detto, dal «supremo principio» della continuità dello Stato, principio che avrebbe la virtù di giustificare preventivamente ciò che è contrario alla legalità costituzionale. Su questo punto, la dottrina che si è espressa, con diversa intensità d’accenti e qualche «distinguo», si schiera sul fronte opposto. Così Rescigno, ancora una volta con linguaggio schietto, parla di «mostruosità» e s’indigna che la Corte abbia voluto avallare una simile idea e non si sia, quanto meno, limitata a tacere, lasciando ai politici la responsabilità di difendere la sopravvivenza d’un Parlamento illegale. Capotosti tratta, a proposito degli eletti in base alla legge incostituzionale, della loro perdita della legittimazione ad agire nell’ambito di competenza dell’organo di appartenenza, cioè di un difetto perdurante che non può occultarsi dietro l’idea del fatto compiuto. Sorrentino parla di rottura del «rapporto di rappresentanza», che è quanto dire che il Parlamento è stato privato del titolo di rappresentante del popolo sovrano. Si potrebbe andare oltre e pronunciare la parola riassuntiva e definitiva: usurpazione, parola tanto più appropriata quanto maggiore è l’enfasi della denuncia, contenuta nella sentenza, circa la rottura del circuito democratico, circa l’espropriazione della sovranità degli elettori, ecc.
In ogni caso, quali che siano i concetti e le espressioni usati per stigmatizzare la situazione venutasi a creare, c’è unanimità nel denunciare l’assenza di disagio, anzi la totale insensibilità del mondo politico e istituzionale di fronte a cotale vulnus alla democrazia rappresentativa. Suscita scandalo il fatto che questo Parlamento e il governo ch’esso sostiene con l’avallo del presidente della Repubblica, si ritengano legittimati a proseguire la corsa fino a quella sarebbe la scadenza normale della legislatura, essendosi posti, addirittura, l’obiettivo di cambiare la Costituzione (così, Alessandro Pace, in diverse sedi, tra cui I limiti di un Parlamento delegittimato, in La Repubblica, 26 marzo 2014). La tesi più rigida è quella di Gino Scaccia, richiamata da Sorrentino, secondo la quale le Camere avrebbero dovuto essere sciolte immediatamente e rinnovate sulla base della legge elettorale riscritta in termini proporzionalistici dalla sentenza della Corte. Come si fa, infatti, a non vedere l’assurdità di chi è stato eletto indebitamente, il quale si accinge non semplicemente a legiferare ma, addirittura, a legiferare sulle elezioni? In generale, comunque, «la dottrina», per una volta unanime, chiede che si ritorni al più presto alle urne, con la legge elettorale che, in conformità alle indicazioni della Corte costituzionale, sia stata approvata il più tempestivamente possibile e, in mancanza, con la legge elettorale che c’è. Si chiede, così, un minimo di coerenza costituzionale, un minimo che tuttavia, nelle attuali condizioni di de-costituzionalizzazione della vita politica, sembra un traguardo inarrivabile. È inaudito che chi sta al governo si proponga tranquillamente prospettive di durata in una situazione di dichiarata incostituzionalità, dice Carlassare. La politica e i problemi di governo del Paese hanno le loro leggi, le loro necessità e le loro urgenze, ma coloro che sono intervenuti come giuristi fanno facilmente proprio il dovere al quale richiama Rescigno: dire l’unica cosa che è necessario dire secondo il diritto, senza farsi prendere nelle panie dei discorsi, sempre contestabili, d’opportunità politica e negli intrecci degli interessi partigiani.