Si dice che Internet sia la più grande “fabbrica” al mondo. Ma diritti e lavoro vanno di pari passo con la sua diffusione e pervasività? La risposta è no.
Facciamo degli esempi. Nel 2012 Instagram aveva 13 dipendenti e un valore di 1 miliardo di dollari, e questo significa che ogni lavoratore aveva un valore di 77 milioni di dollari. Nel 2014 WhatsApp aveva un valore di 19 miliardi di dollari con soli 55 dipendenti, pari a un valore di oltre 345 milioni di dollari per dipendente. Sul piano dell’occupazione non ci sono paragoni con i grandi modelli della vecchia società industriale.
Il problema è che non c’è redistribuzione della ricchezza e questo il rapporto Oxfam (che misura le disuguaglianze) ce lo ricorda ogni anno. Quando l’1% della popolazione mondiale possiede più del restante 99%, ci si trova di fronte a un problema sia sociale, sia economico, perché è evidente che, in base a principi economici di base, se le persone sono povere non ci può essere spesa al consumo. Anche l’ISTAT in settimana ha certificato che la povertà in Italia è in ulteriore aumento.
Parlando di piattaforme tecnologiche, non tutti sanno che il 55% dei “gig workers” sono giovani (18-34 anni) e che il 50% è in possesso di una laurea. Eppure il settore è in crescita e uno studio dell’Università di Pavia ci dice che nel 2025 il volume d’affari raggiungerà un livello tra i 14 e i 25 miliardi di euro. Certo, le grandi piattaforme e le multinazionali devono essere in grado di operare anche nel nostro Paese, ma senza dimenticare i diritti dei lavoratori. In Germania “Foodora”, infatti, riserva ai “riders” uno stipendio dignitoso, mentre in Italia i lavoratori sono sfruttati attraverso contratti precari, anche se di fatto sono subordinati. Il decreto dignità aiuterà a contrastare questo fenomeno del tutto nuovo.
Nella nuova economia anche i diritti e le tutele vanno aggiornati. Purtroppo con il Jobs Act si è andati nella direzione opposta. I contratti a termine sono aumentati drasticamente e rispetto alla media europea c’è stata un’impennata della precarietà, andando persino in contrasto con la direttiva UE che regola i contratti a termine. Ricordo che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) dice da tempo che principi e diritti fondamentali del lavoro andrebbero estesi in chiave universale e a prescindere dal tipo di contratto, con soluzioni più radicali nel medio e lungo periodo.
I singoli Paesi devono fare la loro parte, e noi intendiamo andare in questa direzione. Rivedremo il ruolo della formazione, anche per chi deve fare incontrare domanda e offerta: in Italia si investe ancora pochissimo in politiche sociali, e questo lo dimostra anche il fatto che rispetto ad altri Paesi come la Germania abbiamo un decimo dei dipendenti dei centri per l’impiego. Lavoreremo per valorizzare le Piccole e Medie imprese, che in Italia sono oltre il 90 percento e che rispetto ai concorrenti esteri si trovano in maggiore difficoltà quando si tratta di fare investimenti.
Ancora, faremo in modo che le imprese che lasciano l’Italia dopo avere goduto di aiuti e finanziamenti pubblici restituiscano il “maltolto” in caso di delocalizzazione. Il fatto che i lavoratori italiani lavorino circa 350 ore in più rispetto ai lavoratori tedeschi ha un impatto forte su produttività e disoccupazione, e anche su questo occorrerà intervenire. In prospettiva, introdurremo il reddito di cittadinanza di cui l’Italia ha estremo bisogno: fortunatamente questo tema è entrato nel dibattito pubblico e l’opinione pubblica capisce che di tutto si tratta tranne che di uno strumento assistenzialista.
In poche parole, il mondo sta cambiando alla velocità della luce e occorre lavorare per governare i cambiamenti al meglio. Noi lo faremo fin dai primi provvedimenti.
Il mio intervento al convegno “Nuove economie e lavoro: sfide e opportunità” (parlamentino del CNEL, 27 giugno 2017, Roma)