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Ex dirigente di Pirelli e Telecom, il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha fatto spesso leva sulla sua conoscenza “concreta” dell’impresa e del lavoro. Mi chiedo allora: come ha potuto dichiarare che “il lockdown ci ha insegnato lo smart working, ma è il momento di tornare a lavorare”?

Lo smart working “è” lavoro e precisarlo non è mera polemica (peggiore è l’esternazione di Pietro Ichino secondo cui sarebbe stato “una vacanza” per i dipendenti pubblici). Piuttosto serve a svelare quanto sia difficile liberarsi da pregiudizi e vecchi schemi, anche per chi amministra con buone intenzioni.

Il 1° gennaio gli smart workers erano 570 mila. Durante il lockdown secondo alcune stime sarebbero saliti a 8 milioni. Eppure dei vantaggi di un’organizzazione snella slegata dal luogo di lavoro se ne parlava dagli anni Ottanta. Secondo il sociologo Domenico De Masi, tra oltre 23 milioni di occupati sarebbero addirittura 14 milioni coloro che svolgono mansioni “telelavorabili”.

Oltre a comportare un aumento della produttività del 20%, per le imprese lo smart working riduce i costi per affitti, utenze, pulizie. Per i lavoratori significa azzerare il tempo degli spostamenti e la spesa per i mezzi di trasporto. Per la comunità, minore esposizione agli shock pandemici, città vivibili e aria più pulita (morti e malati a causa dell’inquinamento sono la piaga del Nord Italia).

Tutto rose e fiori? No, certo, ma non possiamo nemmeno ridurre la questione all’impatto su chi vende colazioni e pranzi di lavoro. A Torino Confesercenti chiede di porre fine urgentemente allo smart working. La domanda è: vogliamo davvero essere un Paese moderno all’altezza del contesto globale e delle sfide del nuovo Millennio?

Se la risposta è sì, serve uno sforzo triplice: incentivare il settore pubblico e privato, garantire ai lavoratori (tutti) i necessari diritti e le tutele, accompagnare la transizione senza che nessuno venga penalizzato.

Dovremo ripensare i servizi pubblici, nuove forme dell’abitare. Dovremo anche, finalmente, rimodulare l’orario di lavoro, come sostiene anche il Premier Giuseppe Conte. Ma è proprio perché le transizioni storiche producono effetti a cascata che, da parlamentare e da Sottosegretario, ho lavorato all’istituzione di un Osservatorio sul futuro del lavoro. Una politica lungimirante avrebbe dovuto avviarlo decenni fa.

Pensare che il Coronavirus ci abbia lasciato lo smart working è riduttivo. In verità ci ha dimostrato che dobbiamo superare il modello di sviluppo dal quale proveniamo ed è su questo che dobbiamo lavorare. Insieme, senza nostalgie e senza battaglie di quartiere. Credo che così ce la potremo fare, evitando che a imporcelo siano nuove pandemie.