E’ evidente a tutti che la tecnologia porta da sempre un miglioramento delle condizioni di vita. Basti pensare agli elettrodomestici, ai sistemi di automazione industriale nelle aziende, oppure ai mezzi di trasporto e così via. Nel contempo sappiamo che le innovazioni, se mal gestite nel loro impatto sociale, producono anche effetti negativi.
Pensiamo per esempio alle piattaforme tecnologiche come “Foodora” e “Deliveroo”, che oggi consentono agli utenti di vedersi consegnati comodamente a casa i pasti a qualsiasi ora del giorno grazie, però, allo sfruttamento di migliaia “gig workers”.
I “gig workers” sono per la maggior parte giovani (18-34 anni, 55%) e, dato ancor più triste, il 50% è in possesso di una laurea; lavoratori che prestano il proprio operato per un misero stipendio e senza un minimo di tutele.
Ovviamente queste piattaforme ringraziano: in Italia, in base a una ricerca dell’Università di Pavia commissionata da “Phd Italia”, il volume del comparto “Gig economy” sarebbe destinato a salire a 8,8 miliardi nel 2020, fino a un valore compreso tra i 14 e i 25 miliardi nel 2025.
A tutti questi problemi non esistono risposte semplici. Proprio per questo è fondamentale avere un approccio metodologico e scientifico. Noi lo abbiamo avuto sviluppando la ricerca “Lavoro2025”.
Bisogna quindi avere una “doppia visione”: una a breve termine e un’altra a lungo termine.
Nel breve periodo calzano a pennello le indicazioni dell’ILO (International Labour Organization): per regolare le prestazioni nella “gigeconomy” bisognerebbe estendere in chiave universale dei principi e diritti fondamentali sul lavoro, a prescindere dal tipo di contratto, mentre nel medio e lungo periodo occorrono soluzioni più radicali.
Purtroppo l’Italia resta immobile a girare i pollici, mentre nel resto del globo c’è chi si sta muovendo in tempo utile. Alcuni esempi?
In Svizzera l’anno scorso è stato proposto, tramite l’indizione di un referendum, un reddito universale di 2.250 franchi al mese.
Stiamo parlando di uno dei Paesi più ricchi in assoluto, dove la disoccupazione ha un tasso prossimo allo zero e lo stato sociale funziona alla perfezione, per non parlare del suo reddito procapite tra i più alti al mondo. Nonostante tutte queste buone condizioni, oltre uno Svizzero su cinque ha ritenuto – già da oggi – prioritaria l’introduzione di un reddito minimo incondizionato.
Nel frattempo in Finlandia e Olanda sono già avviate da tempo delle sperimentazioni del reddito di base incondizionato. Non è da meno l’Alphabet di Google, che sta testando gli effetti di questo “ammortizzatore universale”su un campione di persone.
Quest’ultima iniziativa partita dalla Silicon Valley è a mio avviso inquietante, soprattutto se pensiamo che Google ha una capitalizzazione di mercato (717,31 Mld) superiore al Pil di Paesi come Irlanda, Danimarca e Norvegia messi assieme. Con questa sperimentazione pare stia facendo delle prove generali di governo pur essendo una società privata, non di certo uno Stato sovrano.
Industrie tecnologiche come Apple, Amazon, Google e Facebook a mio avviso si dovrebbero occupare del problema della redistribuzione economica anziché ingegnarsi su come eludere il fisco, considerato il loro triste contributo nell’aggravare le diseguaglianze sociali che stanno colpendo sempre più la classe media. Lo spiega bene Robert Reich, ex segretario del Lavoro dell’amministrazione Clinton, nel suo documentario “Inequality for all”. Oggi la ricchezza è concentrata in pochissime mani e le otto persone più ricche al mondo detengono l’equivalente di quella posseduta dalla metà più povera della popolazione mondiale (3,6 miliardi di persone!).
Negli Stati Uniti, così come in Italia, la spesa al consumo è determinata dalla classe media (per l’esattezza, negli States il 70%). Ciò vuol dire che se muore la classe media, muore il mercato.
Come intervenire dunque?
- Redistribuendo il benessere generato da tecnologie che consentono la produzione di più beni e servizi con maggior efficienza, in minor tempo e meno ore di lavoro.
- Intervenendo con accordi internazionali che definiscano le regole comuni per il contrasto alla grande evasione fiscale, paradisi fiscali in primis.
- Estendendo una base di diritti comuni su tutte le tipologie contrattuali.
- Istituendo un reddito minimo universale ispirandosi alle politiche sociali dei Paesi del Nord Europa, che non fanno assistenzialismo ma applicano la vera essenza del “Welfare State”.
Difficile? No, ineludibile.
Il mio recente intervento al convegno “L’etica dell’innovazione”.