Ieri alla Camera dei Deputati ho voluto ancora un volta ricordare Marco Pantani e fare un appello: chi conosce la verità deve parlare e farlo subito!
Dallo speciale de “Le Iene” andato in onda lunedì sono emersi ulteriori elementi sconcertanti sulla vita sportiva del campione e sulla sua morte all’hotel “Le Rose” di Rimini il 14 febbraio 2004.
Pantani è stato ucciso 3 volte.
Sportivamente: con l’esame del sangue falsato a Madonna di Campiglio durante il Giro d’Italia del 1999, poiché è ormai evidente a tutti la manipolazione della provetta “deplasmata” tramite la sottrazione di una parte liquida del sangue.
Lo dimostra l’incidenza bassissima di piastrine rilevata (piastrine che “guarda caso” compongono proprio il plasma).
Lo dimostrano le tempistiche dei controlli, lunghissimi tra il prelievo e gli esami – oltre un’ora – giusto il tempo per consentire alla parte solida del sangue di depositarsi sul fondo così da agevolare l’alterazione artificiale del campione prelevato portando i livelli di ematocrito oltre le soglie di tutela dei corridori.
Lo dimostrano le controanalisi fatte lo stesso giorno da Pantani presso una struttura ospedaliera di Imola accreditata dall’UCI (Unione Ciclistica Internazionale) mostrando che i livelli di ematocrito erano ampiamente nella norma, così come testimoniato dallo staff della sua squadra che il giorno prima aveva fatto un analogo esame con il medesimo risultato di Imola.
Lo dimostrano le intercettazioni di un boss della Camorra del giro delle scommesse che in una telefonata conferma la terribile tesi della manipolazione.
Infine lo dimostra addirittura il buonsenso. Pantani aveva il Giro d’Italia in tasca, non aveva rivali, i primi 10 della classifica generale erano sistematicamente soggetti a controlli quotidiani: perché mai avrebbe dovuto correre questo assurdo rischio?
Poi è stato ucciso giudiziariamente con ben 9 procure che lo indagarono. Manco fosse Toto Riina.
Si arrivò addirittura al paradosso di un tribunale che lo condannò in primo grado, sentenza ribaltata in appello perché la condanna non fu supportata da violazioni di alcuna legge. Un assurdo giuridico.
Infine come uomo il cui epilogo nella stanza d’hotel di Rimini ricordiamo tutti. Persino da morto infierirono su Pantani. Con una scena del crimine inquinata, testimoni chiave non ascoltati da chi doveva scoprire la verità, una palletta di cocaina comparsa dal nulla vicino al suo corpo senza vita e tante, troppe cose che non tornano.
Molti dovrebbero chiedere scusa a Marco Pantani e a chi gli ha voluto bene.
Una buona parte del ciclismo, salvo rare eccezioni come Paolo Savoldelli, che in seguito all’ingiusta esclusione del campione di Cesenatico dal Giro d’Italia 1999 (a pochissime tappe dalla fine) si rifiutò di indossare la maglia rosa.
Una buona fetta della magistratura e della giustizia sportiva che hanno scavato in maniera opprimente nella sua vita senza trovare davvero la verità dal 5 giugno 1999 ad oggi e cercandola evidentemente nella direzione sbagliata. Vessando la vittima, anziché tutelandola.
Infine tutto il sistema mediatico, alla ricerca ossessiva del titolo di giornale, dello scoop a tutti i costi. Da eroe nazionale da esibire in tutto il mondo a delinquente dopato, drogato e donnaiolo il passo è stato brevissimo nella narrazione fatta da parte dell’informazione italiana. È bastata una provetta di sangue, una provetta manipolata che in meno di 5 anni l’ha portato alla morte, prima come atleta e poi come uomo.
Ora, anche se in tremendo ritardo, è il momento di fare chiarezza. Per la memoria di Marco, per la giustizia, per i suoi cari mamma Tonina e papà Paolo. Per la verità.
Il mio intervento in Aula inframezzato da alcuni stralci dell’inchiesta de Le Iene.